venerdì 15 febbraio 2008

Obbiettivo felicità: siamo così sicuri?


Negli ultimi anni si è sentito tanto parlare di scienza della felicità. Da un lato, l'emergere della positive psychology ha messo in luce la necessità di studiare non solo le patologie depressive che possono colpirci, ma anche la felicità e in generale gli stati emotivi positivi. Dall'altro lato, scoperte in campo scientifico hanno permesso di individuare quali sono le attività cerebrali che condizionano il nostro stato di benessere.
Un recente articolo di Newsweek tuttavia, evidenzia che quando lo studio della felicità si incontra con la logica del mercato ne può nascere un movimento che porta ad assegnare alla felicità un' importanza eccessiva.


Secondo Ed Deiner e figlio, autori del libro Rethinking Happiness (uscita prevista per il 2008), è emersa una vera e propria industria della felicità fatta di libri (incluso il loro?) che insegnano ad essere felici e di compagnie farmaceutiche che sperimentano farmaci in grado di renderci tali. In altre parole, la felicità è diventato un obbiettivo da perseguire ad ogni costo.
L'articolo di Newsweek non nega l'importanza della felicità, anzi riconosce che cercare di essere felici è naturale per gli esseri umani. Tuttavia, mette in luce che anche essere tristi è del tutto normale e che tristezza e sofferenza possono anche avere qualche effetto positivo. Secondo alcuni studi infatti, mentre il raggiungimento di un moderato livello di felicità sarebbe collegato a maggiori livelli di educazione, partecipazione politica, reddito e successo, il raggiungimento di livelli di felicità estremi potrebbe portare ad una perdita di motivazione e quindi a non cercare alcun miglioramento in termini di carriera, relazioni e così via.

Anche Eric Wilson nel suo libro Against Happiness elogia la tristezza mettendo in luce che solo attraverso la sofferenza si fa vera esperienza della condizione umana. Inoltre, dice sempre Wilson, essere di umore non proprio ottimo può aiutare a diventare più analitici, critici e innovativi.

La parte dell'articolo che mi sembra essere particolarmente rilevante comunque è quella in cui si evidenzia che essere tristi non significa essere depressi. In poche parole, essere tristi non è una patologia! E' normale che gli esseri umani provino tristezza a fronte di eventi negativi. Pertanto, le emozioni negative non andrebbero combattute ad ogni costo.
Sicuramente la depressione è uno dei grandi mali dei nostri tempi. E' un male di cui bisognerebbe parlare di più e più apertamente e, quando presente, dovrebbe essere considerata come qualsiasi altra malattia e quindi curata. Tuttavia, anche chiamare patologia quello che può essere un normale e temporaneo stato umano può essere pericoloso. A volte è solo provando un po' di tristezza che si può essere felici di nuovo.

Che dire? Sono d'accordo!

2 commenti:

Philippe ha detto...

Su questi argomenti così "fondamentali" (per noi) ognuno si inventa la propria teoria. Ecco la mia.
La Natura ha assegnato agli uomini una certa quantità di benessere (e, viceversa, di sofferenza) da spendere nei vari settori della loro vita.
Oggi gli esseri umani vivono molto a lungo e godono di tutte le comodità. Ciò significa che la sofferenza che prima era spesa nei dolori fisici ora deve essere consumata altrove, nella sfera mentale. Non credo sia possibile sfuggire alla regola "vivere significa anche, ogni tanto, soffrire". Altrimenti non sarebbe più "vivere" come lo intendiamo noi, sarebbe sognare o fare parte di un film.

Valeria ha detto...

Teoria interessante. E credo anche parzialmente verificabile: non penso che in Africa ci siano molte persone che soffrono di depressione..
Io ne avrei una variante che però implica inizare a considerare il cervello e tutte le attività mentali al pari di altri organi e attività del nostro corpo.
Intendo dire così come la sofferenza fisica era (o è) causata dalla mancanza di ciò di cui si necessitava o dall'eccessiva fatica, lo stesso potrebbe valere per il cervello oggi. Se trasportassimo pesi sulla schiena per 12 ore e avessimo poco da mangiare, sicuramente ci sentiremmo deboli e con la schiena a pezzi. Allo stesso modo se stiamo per 14 ore ad usare il cervello davanti ad uno schermo o in una biblioteca sottoterra non possiamo pretendere che la sofferenza non si insinui nella nostra mente. Non voglio dire che usare il cervello sia sbagliato, ma forse è importante, come per il resto del corpo, tenerlo allenato, ma anche farlo riposare!